giovedì 22 febbraio 2018

E' morto don Ottavio Cossu, missionario in Africa...


Cronaca di Gallura
(Claudio Ronchi) – La sua morte risale a qualche giorno fa, a Mercoledì delle Ceneri del 14 febbraio, inizio di Quaresima. Ed è avvenuta nel 45º anniversario di sacerdozio, a Viddalba, dopo aver celebrato messa. Don Ottavio Cossu era nato proprio a Viddalba, nella bassa valle del Coghinas, il 16  marzo del 1946 ed era stato ordinato sacerdote nel suo paese natale, il 7 luglio 1973, dal vescovo Carlo Urru.
“Ho svolto il mio ministero pastorale nelle parrocchie di Nulvi, Tempio, San Pasquale, Martis e nell’ospedale di Olbia”, aveva scritto in una sua breve autobiografia don Ottavio. “Successivamente ho continuato il mio operato per 15 anni, come missionario ‘fidei donum’ in Mozambico nelle diocesi di Nakala Porto, ove ho svolto attività di evangelizzazione e di concreto aiuto al popolo Makua, al nord del paese, una delle zone più martoriate della storia contemporanea, appena uscita da una guerra devastante e vittima di una colonizzazione portoghese schiavista conclusasi da pochi decenni”.
Don Ottavio Cossu era rientrato dall’Africa nel 2010 assumendo successivamente, in diocesi, vari incarichi. È stato legato a La Maddalena sia come insegnante che come missionario. Per molti anni infatti ha insegnato Religione all’Istituto Magistrale, nel periodo in cui è stato parroco di San Pasquale. E poi per le molte volte è tornato all’Isola, quando era missionario in Mozambico, per cercare qui, come in altre parti della Gallura, fondi per la sua missione. Vi andò, in Africa, come missionario della Diocesi di Tempio-Ampurias, autorizzato dal vescovo francescano Paolo Atzei, il quale non poté ulteriormente rinviare la pressante richiesta del piccolo sacerdote anglonese.
A Memba, sede della sua missione, è stato visitato negli anni dallo stesso vescovo Atzei e da alcuni sacerdoti tra i quali don Domenico Degortes e don Gianni Sini, responsabile diocesano per le missioni. Da don Cossu, in Africa, si sono avvicendati anche una sessantina di volontari laici, provenienti da diversi paesi della Gallura e dell’Anglona, i quali hanno lì prestato la loro opera ed aiuto per periodi di tempo più o meno lunghi. Alcuni vi si sono recati più volte.
Da La Maddalena sono andati da don Cossu, nella sua missione in Africa: Pier Carlo Acciaro, Tonino Canu, Nunzio Del Bene, Gianna Deiana. Per lunghi periodi e per molti anni è stato suo stretto collaboratore in Africa il poeta Pier Carlo Acciaro.  La Missione ha ricevuto ingenti aiuti dai gruppi missionari diocesani come anche dal Gruppo Missioni di S.M.Maddalena coordinato da Anna Maria Gaspa.


mercoledì 21 febbraio 2018

In ricordo di don Ottavio

Parlare di don Ottavio, raccontare il suo essere sempre e comunque un "missionario" che praticava "il Verbo" fatto uomo in ogni sua azione mi è doveroso.
Io, Mariantonietta, malata di Parkinson, ho avuto la "grazia di conoscerlo.
Semplice, diretto, calmo, ironico.
Forte della sua "Fede" ha camminato sui percorsi più disagiati della vita, ha operato, coinvolgendo volontari,  su quelle strade dove gli stessi uomini avevano piantato spine dolorose...HO avuto la fortuna di ascoltarlo...

CRONACA OLBIA14 FEBBRAIO 2018
Olbia. Morto l’ex cappellano del San Giovanni di Dio
Un ricordo indelebile ANGELA DEIANA GALIBERTI



Olbia, 14 febbraio 2018 – Don Ottavio Cossu, storico cappellanodell’Ospedale San Giovanni di Dio di Olbia, è morto a 72 anni. Ieri mattina, dopo aver celebrato messa a Viddalba – suo paese di origine, è stato colpito un infarto mentre si trovava in casa.
Don Cossu ha lasciato un bel ricordo in ogni paese in cui ha esercitato la sua missione cristiana: oltre ad essere stato cappellano del primo ospedale olbiese e vice parroco nella Cattedrale di Tempio, per anni ha vissuto in Africa – precisamente in Mozambico – dove ha cercato di dare sollievo cristiano e materiale ai bisognosi.
Tante le opere di bene fatte dal sacerdote sardo, tra cui la costruzione di scuole e pozzi, ma anche dare il via al microcredito agricolo nella missione di Kavà e l’avvio di una cooperativa per la lavorazione della ceramica nella parrocchia di Kisangara Juu.
Profondo conoscitore della realtà africana, don Cossu – una volta tornato in Sardegna – ha continuato ad ascoltare la sua vocazione missionaria, senza mai smettere di raccontare l’Africa: quella vera, quella che lui ha toccato con mano.
In un blog, don Cossu racconta le vicende africane delle missioni da lui visitate: un racconto che si ferma il 6 gennaio 2018 con l’ultimo post dedicato ai serpenti (animali molto diffusi nel continente africano, come sottolinea lo stesso Cossu).
Nel post dedicato a sé stesso, in cui racconta chi è e cosa ha fatto nella sua vita, don Cossu descrive il suo primo incontro con il popolo makua, reduce da una guerra senza fine: “Reduce da una guerra trentennale, il popolo Makua sembra non sia capace di progettare, né di pensare al proprio futuro. Indifeso, senza giustizia, né governo, nelle mani di chi ha soldi e prepotenza, sempre pronto al furto e alla menzogna per sopravvivere. In questa gente ho trovato un cuore grande e buono, che illumina il volto di luce, affascina, conquista, e trascina chi ha il cuore semplice e desideroso degli altri. Quei fratelli non hanno medicine per curarsi, né ospedali dove ricoverarsi. L’acqua sporca che sono costretti a bere, le condizioni igieniche dove vivono provocano malattie e morte. La buona volontà dei giovani non è sorretta dai mezzi e la sete d’imparare non trova maestri che l’appaghino“.
Al rientro in Sardegna ha anche fondato un’associazione: Noi una famiglia. L’associazione è formata da “volontari che condividono il suo ideale di dedizione agli altri per una crescita umanitaria, sociale e spirituale della persona nel suo ambiente  naturale“.




giovedì 15 febbraio 2018

Non un addio ma un ciao...

Carissimi fellower di questo blog
don Ottavio è venuto a mancare...
continuerò da sola quel cammino di narrare il  vissuto da missionario in terra sua e in terra d'Africa.
Il suo operato dedito ai poveri, agli umili...agli ultimi, impreziosito da un silente e costante impegno, canta al cielo la purezza del suo cuore nel donarsi al Signore.

Una delle sue ultime pagine che ci ha lasciato

Aiutare le persone
Si sa che la guerra porta con sé ogni tipo di male. Uno  dei tanti è la diffidenza. Quando questa è  accompagnata all’invidia sono poche le speranze di salvarsi. Si rimane con i propri problemi , si diventa ciechi e incapaci di giudizio anche quando tutto è chiaro e positivo.  In questi  casi é compito del missionario andare incontro alle persone, creare opportunità di riscatto ed essere sempre positivi, anche quando tutt’intorno porta in altra direzione. Ovunque la guerra lascia mutilazioni di ogni tipo: persone con una sola gamba, giovani con un braccio, bambini con malattie mentali, uomini e donne con paralisi deformanti. Ovunque domina la sporcizia  e l’assuefazione a essa.
Per alleviare simili mali  é indetta una campagna di sensibilizzazione promossa da una organizzazione italiana in favore di persone  mutilati negli arti. Si tratta di presentarsi all’ospedale di Namahaca per una visita preliminare e in seguito andare all’ospedale di Nampula per l’applicazione della protesi. Tutto è gratis: viaggi, visite, assistenza e controlli successivi. Come per le vaccinazioni  o altri aiuti al centro di raccolta si attende grande afflusso di malati. Si apre la campagna ma non si presenta nessuno, nonostante circolino molti bisognosi. Si intraprende una seconda sensibilizzazione capillare in modo personale in tutta la zona. L’iniziativa abbraccia anche la missione di Kavà.   
Io interpello un giovane e un anziano. Il primo è Mauricio, frequenta assiduamente la comunità cristiana di Muipia. Con  ardore  si prepara per il battesimo e il matrimonio. A lui manca metà della gamba sinistra che si era dovuta amputare a causa del morso di un serpente quando, ancora bambino, fuggiva per salvarsi dai guerriglieri. Mauricio è rispettato da tutti e l’intera comunità lo apprezza per il coraggio e la forza che mostra nel lavoro. Il giovane accetta la proposta con entusiasmo. Sogna di dover correre come un tempo senza portare appresso bastoni o altro. Una cosa lo preoccupa: non sa come incollare il pezzo mancante all’arto esistente. Gli sono spiegate le  norme del caso.  Il giovane chiede alcuni giorni di tempo per riflettere e avvisare la fidanzata che abita lontano. Mauricio va a Chipene, dove dimora la  ragazza e non fa più ritorno  a Muipia. Agli amici confida che non ritornerà più nel villaggio finché ci sarà “quel Padre”. Il giovane ha paura di portare con sé una cosa che non gli appartiene (la protesi). Il bastone che  ha sempre fra le mani ormai fa parte della sua persona e non lo può abbandonare. Incontrando il missionario è obbligato a dare spiegazione e lui non vuole rivelare il suo segreto. Il giovane, lontano dalla sua comunità si forma la famiglia e nessuno gli parlerà mai più dell’arto mancante.
Al secondo interpellato mancano la gamba e il ginocchio sinistro. Abilio, questo è il nome del signore in questione, è un animista sui cinquant’anni. Durante la guerra, in una colluttazione col nemico lo  feriscono gravemente a una gamba con coltelli e altro. Lui  cura la profonda e pericolosa ferita con radici e medicine tradizionali e la gamba sembra guarita. Benché con atroci dolori lui vive tranquillo finché la ferita va in cancrena. All’ospedale militare per salvargli la vita    sono costretti ad amputare la gamba e poi lo mandano a casa. Abilio non ha mai capito il motivo per cui gli abbiano salvato la vita poiché in casi simili il ferito era subito eliminato. In seguito il soldato si sposa alcune volte e  ha dei figli. Le mogli lo licenziano dopo il primo o il secondo parto con la motivazione che non lavora abbastanza.  Abilio, stanco di cercare mogli, ora vive solo.  I figli, ammogliati e  con figli anche loro, vivono nei villaggi vicini e solo saltuariamente visitano il padre. Le molte vicende della vita lo rendono diffidente e orgoglioso. Difficilmente si lascia aiutare. Cammina con un bastone che serve anche come autodifesa quando i ragazzi si giocano di lui. In particolare ci sono alcuni  ragazzotti i quali gli girano attorno imitando il suo modo     di camminare zoppicante. Lui si adira moltissimo e, sollevando per aria  il bastone,  augura loro ogni sorta di disgrazia.  Non ammette scherzi sulla sua anomalia. 

Quando  é convocato dal missionario si meraviglia che qualcuno si interessi a lui. Curioso si presenta subito nella missione. Gli parlo della campagna in corso per avere gratis  la protesi che lo renderebbe libero di camminare senza il bastone. Come Mauricio non capisce   cosa sia l’attrezzo che dovrebbe incollare alla sua gamba. Abituato oramai al bastone non sa come lo possa abbandonare.  Nonostante i dubbi l’uomo si mostra contento e già s’immagina camminando come un tempo. Per fugare ogni difficoltà ripeto più volte   che non c’è nulla da pagare, che sarà assistito in tutto e che sarà accompagnato in ogni trasferta.  Lui deve dare la sua autorizzazione e all’ospedale firmare un foglio per garantire il consenso. Abilio pensa per un attimo, osserva il mio volto, poi dice: “Quanto mi dà?” “Perché mi chiedi questo?”, rispondo io, “ti do la possibilità di camminare bene come tutti gli altri, non ti basta?”. “Padre”, replica lui, “se mi ha convocato significa che lei guadagna dalla mia gamba e io voglio la mia parte”. Mentre parla stende la mano aperta verso di me con un sorriso malizioso. Spiego nuovamente il significato di quella campagna, assicuro la gratuità assoluta da parte di tutti e che io non guadagno nulla.  A niente vale il mio discorso. L’uomo  si allontana per vivere col suo bastone.

mariantonietta

sabato 6 gennaio 2018

I serpenti...esperienza diretta..


Tutta l’Africa è disseminata di serpenti di ogni misura e pericolosità. Ci sono serpenti piccoli che danno pochi minuti di vita alla preda che morde. Ci sono i serpenti di due o tre metri i quali   sono pericolosi non perché mordono ma perché avvolgono la preda e la stritolano. C’è anche un serpente verde innocuo lungo circa  trenta centimetri. Tutti si possono incontrare ovunque, per le strade, nei campi e all’interno di una abitazione. Preferiscono i luoghi bui, sotto le foglie e in mezzo ai rami. Strano ma vero, c’è qualche serpente che può mordere anche dopo morto e il suo morso è mortale. L’udito e la vista degli indigeni scorgono di lontano la presenza di esseri che si muovono in terra o sugli alberi.  Con una pietra o un bastone anche i  ragazzi riescono a difendersi bene. Sentiamo.
Nel pollaio
Si sente rumore inconsueto nel pollaio, le galline si ritirano spaventate in un angolo, poi silenzio. Passa qualche minuto ed è calma assoluta. Le guardie notturne si scaldano al fuoco acceso   per segnalare la presenza di qualcuno. Una guardia si alza improvvisamente e indica a distanza di alcuni metri qualcosa che striscia. Il cobra, lasciato il pollaio, si dirige  verso la campagna. Le guardie si alzano in piedi  e impugnano il machete e la lancia. L’animale aumenta la velocità ma è raggiunto da una lancia che si conficca nella testa, bloccandolo a terra.  La guardia si avvicina e assicura bene la lancia in terra per  fermare la preda, poi tutti si siedono vicino al fuoco. Il rettile è lungo due metri e ottanta centimetri ed è grosso abbastanza da ingoiare uno di loro senza alcuna difficoltà.  Con i primi bagliori della luce gli uomini controllano il bottino e osservano che il serpente, dimenandosi dalla stretta della lancia  si svincola dall’arma ma non riesce ad allontanarsi di molti metri. Nel preparare il serpente per la padella, questo tipo di serpente è combustibile, le guardie trovano nel suo interno una gallina ingoiata nel pollaio. Gli operai fortunati commentano ridendo: “Guardi, padre, forse aveva fretta o è stato disturbato, l’ha ingoiata  così come l’ha trovata: sporca e con le penne”.
Sui piedi
Sono seduto alla porta della cucina e scrivo con i fogli e un libro appoggiati su una sedia che mi fa da scrivania. Ai piedi porto le ciabatte facilmente accantonabili quando si è seduti. Mi esercito nella lettura e scrittura del portoghese che ancora porta molta fuliggine nella mia mente.  Isolato dal resto del mondo  odo solamente lo sbattere delle onde sugli scogli a pochi metri di distanza. Avvolto dalla solitudine dell’ambiente e immerso nella lettura, sento sui piedi un fresco fuori stagione e qualcosa che scorre. E’ un fresco gradevole per cui, impassibile,  permetto a ciò che dà sollievo faccia il suo corso.   Con la coda dell’occhio scorgo sulla mia sinistra   un serpente di circa  venticinque centimetri allontanarsi. Mi alzo per seguirlo mentre  striscia ma è già scomparso nella sterpaglia. La sensazione di fresco è piacevole così com’ è grande il pericolo corso. I ragazzi mi dicono che se mi avesse morsicato quel tipo di serpente mi avrebbe lasciato poche ore di vita. Ringraziamo la Madonna dello scampato pericolo.
Uscito dalla cunetta
Rientro da Nampula nel primo pomeriggio nella Land Rover Defender vecchio tipo. La macchina è forte, alta, stile camioncino. Viaggia con me un giovane indigeno che mi ha guidato nelle vie della città. La strada è sterrata ma abbastanza agevole, è l’unica via percorribile con il fuoristrada. Siamo sulla via Nampula – Corrane, quella che prosegue per Angoche. Nonostante sia un’ arteria stradale importante, nel 1995 non sono frequenti le macchine. Transitano soltanto i mezzi pubblici che collegano Nampula con Corrane e Liupo, poi Nampula Angoche. Passano pochissimi mezzi privati e pochi camion di ditte impegnate nella sistemazione della strada. Il silenzio degli automezzi favorisce  la libera circolazione dei pochi animali ancora esistenti.
Lasciata la città da una ventina di chilometri in lontananza vedo qualcosa come in un film. Qualcosa s’ innalza sul ciglio della strada. La macchina si avvicina e io vedo un serpente che si eleva dritto al di sopra dell’altezza della macchina mentre la parte terminale del corpo fa due cerchi concentrici nella cunetta. La testa un po’ schiacciata fa un giro all’intorno per osservare cosa lo circonda. Dalla bocca esce la lingua lunga che bagna velocemente le labbra, quasi pregustando il suo bocconcino prelibato, poi si vede il rettile, come una rigida canna, cadere in cunetta da dove era apparso. Istintivamente commento: “Che bello, peccato che sia durato poco tempo”.  Mi interrompe il mio compagno di viaggio: “Padre, può essere bello un serpente pericoloso?”
Dopo anni io lo osservo sempre davanti agli occhi, maestoso, bello, piacevole a vedersi e poco a giocare con esso.
In casa
Che la casa della missione sia sempre aperta a tutti è risaputo ma nessuno sogna di dare  accoglienza ad ospiti indesiderati senza uno specifico invito o un previo avviso.
Nella missione di Moma,  in provincia di Nampula vive da molti anni un giovane volontario spagnolo. Provvede da solo alle necessità più urgenti della popolazione in una zona molto grande e disagiata. Durante la guerra lavorava con un gruppo di missionari partiti subito dopo  il conflitto. Martinez, questo il nome del giovane, rimane sul campo e continua a lavorare. Benché sollecitato dalle autorità religiose garanti a lasciare la zona perché diventata pericolosa  per la sua solitudine, lui non si arrende. “Ho lavorato durante la guerra”, dice, “perché abbandonare ora che la guerra è finita?” Padre Mario, l’unico  sacerdote della missione,  incontra le comunità una volta all’anno per l’amministrazione dei sacramenti. Il missionario vive in una zona lontana inserito in un gruppo missionario.
 Visito Martinez con padre Mario. All’ingresso della missione si vede subito un serpente lungo più di tre metri, grosso, imbalsamato. E’ un monumento che domina tutta la stanza spaziosa. “Non aver paura, padre Ottavio”, mi rassicura il padrone di casa, indicandomi il rettile, “è morto e stecchito, mi fa compagnia. A me rappresenta la vittoria delle vittorie”. Ci sediamo su delle sedie di vimini intorno ad un tavolino anch’esso di vimini . Ci offre dell’acqua fresca e racconta: “E’ un pomeriggio,  mi riposo su quella sedia quando  sento   un rumore delicato ma strano alla porta. Non aspetto nessuna visita e non c’è in programma alcun incontro. Mi alzo e apro la porta. Entra strisciando un grosso serpente che si nasconde sotto il letto, lungo la parete. Salto per lo spavento e realizzo subito il pericolo. Il serpente in questione non è pericoloso quando morde ma, avvolgendosi alla preda la stritola.
 Con una mano afferro un bastone, con l’altra una fiaccola e lo affronto. Lottiamo, come si sul dire, corpo a corpo. Sudo in tutto il corpo non per il caldo afoso ma per la tensione. In un attimo sento i vestiti bagnati e attaccati alla pelle. Mi difendo con la fiaccola, col bastone tento di colpirlo alla testa. Esso si innalza e si butta a terra con velocità per cui è difficile colpirlo mortalmente. Nessuno mi può aiutare. Tento e ritento di colpirlo alla testa. Si muove  prontamente, spostandosi  in altezza e lateralmente. Quando apre  la bocca e la sua lingua esce e si ritira con una velocità incredibile. Il sangue si gela nelle mie vene. Sono stanco ma devo continuare la lotta, è questione di vita o di morte.
Se mi fermo finisco nella pancia del rettile e   sparisco dalla faccia della terra senza lasciare un segnale. Mi affido alla Madonna e al Signore. Come per incanto riacquisto vigore  e continuo la lotta. Anche il serpente da segni di stanchezza. Riesco a colpirlo alla testa e si ferma per un attimo. Approfitto e picchio ripetutamente sul capo finché lo schiaccio. Mi fermo e vado fuori a riposarmi. Chiudo la porta per non lasciar fuggire  il rettile. Ritorno dopo alcune ore e incontro il serpente non dove l’ho lasciato ma all’ interno della camera. Mentre prego guardo il serpente e ringrazio i miei protettori per avermi salvato. Vado nella cappella dove c’è il Santissimo, mi siedo in silenzio, non riesco a dire nulla ma penso alla lotta quale segno di ringraziamento”.
Mertinez mi guarda e ride e dice: “Reverendi padri, ora prepariamo il pranzo”. A Martinez un ringraziamento grande come la fatica quotidiana che sostiene per la testimonianza di fede e la dedizione incondizionata alla gente.




giovedì 21 dicembre 2017

"Grazie Padre!"


Negli anni di permanenza in missione noto che gli avvenimenti speciali  accadono la mattina presto quasi a scongiurare che si   confondano con  i fatti della giornata e perdano il loro prezioso valore. Tutti sanno che   viaggio spesso e mi alzo quando ancora regna il buio della notte. Chi mi vuole incontrare prima della partenza deve camminare di notte e attendere che apra la porta della canonica per salutare il nuovo giorno. Alle cinque smontano le guardie notturne e io sono  da loro per congedarle.  Una mattina  invernale nel  salutare quegli uomini stanchi e intirizziti dal freddo, gli stessi mi avvisano che sotto il mango poco lontano dall’abitazione,  aspettano da  tempo Olgisa e Nziko. Questi sono bagnati non dalla pioggia ma dalla rugiada notturna scesa abbondante per sostituire   l’acqua,  assente da molti mesi. E’ una rugiada benedetta da Dio per tenere sempre verdi i grossi alberi di mango e di cajù. Nel cielo la luna  è   piccola e dà spazio alla moltitudine di stelle che ricamano con mani di fata l’immenso spazio. L’aurora inizia a sostituire il chiarore della luna e delle stelle. Solo un Dio grande e immensamente buono può inventare simili bellezze. Questa mattina  lo splendore e l’immensità del firmamento custodiscono altra bellezza, altra delicatezza che  l’animo umano possiede.   E’ la luce e la delicatezza dell’amore che si fa attenzione e ricompensa.  
Nziko è un giovane sui vent’anni, di media statura, robusto, di bell’aspetto, non eccessivamente nero ma castano scuro. Olgisa Ha un comportamento signorile, non alto, sorridente con lo sguardo rivolto in basso come è consuetudine per le donne makwa, Non interviene nella discussione eccetto quando è sollecitata dal marito. Non interviene per rispetto del marito e del missionario ma anche perché non conosce il portoghese. Dal suo comportamento fa capire che conserva  nel cuore qualcosa di grande mista a una felicità che sprizza da tutti i pori. Sulle spalle porta il solito fagotto  con dentro l’ultima creatura che dorme ignara di tutto e sicura della protezione materna. Il primogenito ha quattro anni e  sta accanto al padre, stringendosi forte alle sue gambe.  La famiglia  viene da Muripa, un villaggio distante venti chilometri dal centro. Hanno camminato per diverse ore perché quelle strade  si percorrono solo a piedi o in bicicletta. Loro non hanno soldi per comprare il mezzo di trasporto e si servono del cavallo di san Francesco. Non possiedono proprio niente. La loro vita è ricca solo di amore, di rispetto, di fedeltà e di attenzione reciproca. Doti veramente rare in  un  ambiente che esce dal turbine della guerra. Non dico che non esistono amore, attenzione,  rispetto, fedeltà ma che non si trovano ovunque. La guerra  ha costruito un ambiente di diffidenza, di odio, di malavita. In quel periodo anche in famiglia ognuno doveva pensare a salvare prima se stesso, poi i congiunti.
I due al mio arrivo si alzano in piedi e mi salutano, lui in portoghese, lei in Makwa col saluto tipico del luogo: “ Moxelelya”, “koxelelya kahiki  nywo”, rispondo io, ( ha riposato bene? Io sì non so lei).  Insieme mi rivolgono il saluto riverenziale riservato alle persone di grande rispetto o a quelle vecchie: “Moscamolo”, “ah- ah”, rispondo io, (come sta?, sto bene). Senza attendere altri discorsi chiedo dove  sono diretti e se hanno molti bagagli. La mia domanda è giustificata perché è norma che la presenza mattutina di persone provenienti dai villaggi lontani è sempre per chiedere passaggi. Alle volte è l’intera famiglia  a   muoversi con fagotti e fagottini che da soli riempiono la macchina. Questa volta mi sono sbagliato, molto sbagliato così da rimanere confuso di tanta delicatezza che i due mi rivolgono. Ricordo di aver riscontrato in precedenza solo qualche altra volta una simile sensibilità.
“Padre, non chiediamo nulla per noi, da qui rientreremo a casa”, dice Nziko con una espressione soddisfatta, quasi contento perché il padre questa volta non ha indovinato il motivo della loro presenza. “Le chiediamo  di ascoltarci   per un solo minuto. Questo è un regalo per lei”. Mentre parla mi porge di lontano una gallina e la signora  alcune uova, e riprende: “La vogliamo ringraziare perché l’anno scorso  ha battezzato il nostro figlio e ha benedetto le nostre nozze.  Attendevamo quel giorno da molto tempo. Il catechista non ci ammetteva mai ai sacramenti perché mancavamo spesso alle lezioni. Lei ci ha  accettato  ugualmente, considerando  la nostra assidua presenza alle celebrazioni e perché abbiamo imparato a casa le preghiere. Le vogliamo dire che adesso conosciamo tutte le preghiere e alle volte recitiamo insieme la corona. La creatura accovacciata sulle spalle di mia moglie  è nata dopo il matrimonio religioso. Noi non  abbiamo dimenticato il regalo che lei ci ha  donato e oggi siamo venuti per ringraziarla: grazie, Padre.
 Potevamo venire prima ma non  avevamo nulla da offrirle e per questo abbiamo preferito attendere il momento giusto, inoltre mia moglie non poteva camminare molto”.  La donna slega il fagotto che porta sulle spalle annodato  sulla pancia. Mi mostra una creatura che dorme beatamente, dolce come la luna che sta per andarsene. Finalmente Olgisa mi guarda nel volto, mostrandomi lo splendore degli occhi incastonati in un viso ampio e lucente.  Come in un coro i due ripetono: “Koshukuru” (grazie). Io ringrazio loro e ricambio il dono con del sale,  una bottiglietta di olio e una busta di riso. Difficilmente il sale si  può comprare, l’olio non si trova affatto nella mensa della gente e il riso è per i giorni di festa.  Ricambiare il dono, secondo le proprie possibilità, è un  gesto che indica  apprezzamento dell’offerta ricevuta.
In un ambiente dove esistono solo doveri, dove per necessità o “per virtù”  la ruberia è di casa, incontrare una simile finezza convalida e incoraggia l’azione missionaria intrapresa e riempie di gioia il cuore.   






martedì 12 dicembre 2017

Giustizia sia fatta...


Nlaika è un ladro di professione, un residuo malavitoso della guerra con una sua banda conosciuta in tutta la regione. Non possiede armi per difendersi ma solo la scaltrezza unita alla velocità delle gambe. Il suo gruppo non è l’organizzazione peggiore ma quando in zona manca qualcosa ci si riferisce a lui in modo quasi sicuro.
Capita che muore un suo familiare e lui è accanto al defunto per ricevere la consolazione (le condoglianze) che il vicinato e i conoscenti porgono ai congiunti. Tutti sono meravigliati e contenti per la sua presenza. Forse  il giovane ha cambiato vita, pensano in molti. Termina il funerale, si rientra a casa e si trova l’abitazione del defunto ripulita di ogni cosa. Sono scomparsi gli abiti e i pochi soldi che il defunto aveva conservato, è scomparso anche Nlaika.
Un’altra volta sulle rive del fiume Mekupuri, vicino a Memba, si trova il cadavere di un giovane sconosciuto. Si rassomiglia a un ricercato. La gente pensa a uno dei tanti malavitosi che girano in cerca di cibo. La polizia non concorda con questa versione.  L’unico che potrebbe aiutare gli investigatori é Nlaika che per caso è presente nel villaggio. Lo si chiama per identificare la salma, pensando che il ritrovato faccia parte della sua banda. Il giovane si presenta, saluta l’amico disteso per terra, lo insulta perché non è riuscito a sopravvivere, (questo modo di fare rientra nell’ antica tradizione locale), lo spoglia degli stracci che porta addosso per essere sicuro della  persona, lo riveste, rivela la sua identità e va via. Tutto avviene alla luce del sole con la sorveglianza dei poliziotti.  Si dilegua Nlaika e appare Adelino, uno sconosciuto alla ricerca del suo amico scomparso da oltre dieci giorni. Lo cerca perché gli ha portato via i suoi risparmi. Adelino vede la ressa della gente, si avvicina e riconosce nel giovane disteso a terra il suo mico. Saluta il cadavere e cerca i suoi risparmi ma non trova nulla di quanto cerca. Adelino si allontana, esigendo dai poliziotti il suo denaro. I militi ordinano di sotterrare il cadavere da qualche parte e iniziano la ricerca di Nlaika.   Questi non ha mai  conosciuto il malcapitato e al momento dell’identificazione inventa tutto. Sugli agenti cade un velo di tristezza e si dubita della identità rivelata dai due. Nel frattempo Nlaika  si è volatilizzato, lasciando detto che se la polizia  vuole il bottino deve cercarlo nelle sue mutande, non nella persona del defunto.
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Spesso siamo propensi a pensare che nella vita di un disgraziato che non conosce altro se non vendetta e furto, ci possa essere spazio per un briciolo di pietà. Nella nostra mente rimane lontano l’idea che il suo cuore sia capace di atti di benevolenza. Alle volte non è così.  Scopriamo allora che anche il cuore più indurito nasconde, nei remoti meandri, la possibilità di tenerezza e di misericordia.
A Nacala Porto, distante da Memba ottanta chilometri,  è rapinato un corriere di una grossa azienda. Subito viene dato l’allarme e si iniziano le ricerche della banda  teppista senza risultato. Come sempre si pensa a Nlaika.  L’indagine non dà nessun esito positivo.  Nei villaggi vicini non c’è traccia del ricercato. Dopo lunghe e accurate ricerche si pensa di applicare una norma giuridica in vigore nell’ agire comune della polizia: Arrestare i parenti  del presunto colpevole finché questo non si consegna spontaneamente. La polizia locale si presenta, dunque, in casa della povera mamma di Nlaika e, non avendo trovato il ricercato nella sua abitazione,  la portano in prigione.  Gli agenti vanno anche in casa di Ancha, cugina del “buon” fuorilegge. Buono perché oltre il furto e qualche avventura amorosa per sedare il proprio istinto non  é capace di fare altro. Gli uomini al servizio della legalità, sicuri di incontrare   nell’abitazione il fuggiasco, pretendono di  controllare la casa senza  un mandato di perquisizione. Ancha non è una donna facilmente malleabile o timorosa. Lei non ha niente a che fare con il cugino, è sicura di non proteggere nessun ricercato. Inoltre vuole difendere le sue cose e i suoi figli da quegli uomini senza scrupoli vestiti di autorità. La  signora si appella   alla  tradizione secondo la quale una donna gravida o che allatta la propria creatura non può essere toccata da nessun uomo. Forte della tradizione la signora si mette all’ingresso dell’abitazione allattando il figlio di due mesi e si rifiuta categoricamente di far perquisire la casa. 
“Il padrone di casa è assente”, dice Ancha, “io non ho nessuna autorizzazione  per far entrare  nell’abitazione alcuna persona, dentro non ci sono ricercati, voi non entrate”. Con fare altezzoso gli agenti rispondono: “Noi abbiamo l’autorità di cercare nelle case il  latitante, siamo sicuri che Nlaika è protetto da te. E’ per questo che ti opponi alla perquisizione”. “Mi sento offesa quando dite che proteggo i delinquenti. Io e mio marito abbiamo sempre vissuto del nostro lavoro e non siamo mai venuti nelle vostre case a mendicare. Siamo persone oneste e voi non entrate in questa casa per nessun motivo”, replica  Ancha. “Se non ci fai entrare ti mettiamo in prigione”, continuano i poliziotti. “Vista la vostra prepotenza entrate, se avete il coraggio, tuttavia ricordate che il padrone di casa è assente”, insiste la  signora. Mentre parla, lascia libera la porta. La donna in questione è anche capo tribù e quindi un’autorità morale. Gli agenti si guardano in volto, sono meravigliati per la sfida rivolta  da Ancha. Pensano a eventuali feticci e hanno paura, tuttavia non possono arrendersi e dichiararsi sconfitti. “Noi non entriamo in casa ma tu e i tuoi figli verrete con noi in prigione”.  Ancha non si oppone, chiude la porta, prende i suoi due figli, mette in mano al figlioletto più grande una manciata di arachidi, si sistema bene sulle spalle il figlio più piccolo. Avvisa la vicina di casa dell’accaduto e raccomanda d’informare il marito quando rientrerà dal lavoro. La coraggiosa signora si avvia alla prigione scortata dalla polizia.  In prigione trova anche la madre di Nlaika.  Al contrario, il latitante non si trova da nessuna parte e  i parenti rimarranno in prigione fino a che il malvivente non si farà vivo. Arriva la sera, il comandante  considera la situazione della giovane donna e dei figli e li rilascia in libertà. In carcere rimane la vecchia madre del fuggiasco.   Il giovane viene informato   della carcerazione della madre per sconta la sua pena. Subito si costituirsi. “Non è bene che mia madre sia prigioniera per colpa mia, gli altri si, mia madre no”, dice il malvivente che riscopre per un po’ di tempo la pietà e la debolezza del cuore.





sabato 9 dicembre 2017

La convivenza tra Religioni


Sono tante le moschee presenti nel territorio della missione di Kavà, molte di più che le cappelle cristiane. I musulmani ferventi s’ incontrano a pregare  cinque volte al giorno e ogni venerdì quale giorno da santificare. Chi non può andare nella moschea prega dove s’ incontra, in ginocchio con la faccia che tocca la terra. Quando sono i fedeli sono numerosi  si mettono uno accanto all’altro ben squadrati. Osservano rigorosamente il digiuno e   girano con la loro corona, ripetendo in continuazione “Alláh è grande, Alláh è forte, Alláh è potente….”. Nella recita di questa preghiera si nominano gli attributi convenienti alla divinità. Ci sono  i musulmani meno ferventi che si presentano alla preghiera quando ne hanno voglia o quando gli impegni di lavoro lo permettono. Ci sono pure quelli ai quali la religione non importa nulla e vivono senza niente praticare.  Gli ultimi forse sono i più numerosi. Anche per loro la sopravvivenza  prevale sulla pratica religiosa.
Non è raro riscontrare questo ultimo atteggiamento persino negli Iman (i capi delle comunità musulmane). Ricordo un mio falegname, iman della comunità di Mirepane, il quale non è mai stato visto  pregare o fermarsi nelle ore della preghiera. Di venerdì mai mi ha chiesto di andare nella vicina moschea per l’orazione comune. Lo stesso si dica per i musulmani e i loro capi che lavorano nei miei campi durante la preparazione della terra per la semina o durante il raccolto. Lavorano insieme ai cristiani e agli animisti senza alcun problema, pensando solo a ricevere il salario.  Sono uguali l’impegno e la moralità nel lavoro anzi,  ricordo dei casi in cui ad istigare e a organizzare il furto durante il lavoro sono stati proprio i cristiani e non i musulmani. Insomma, davanti alla difficoltà di salvarsi tutti siamo uguali poiché la sofferenza e la vita sono di tutte le religioni.
Fra gli amici più fidati incontrati al mio arrivo in parrocchia sono  un cristiano e il suo amico musulmano. Spesso  sono accusato dai cristiani, mai dai musulmani. Nei grandi negozi di Nacala sono sempre i musulmani a darmi subito fiducia, i cristiani  rimangono distanti e alle volte ostili. Dei tanti giovani dello studentato solo alla fine del corso si sa chi  é cristiano o musulmano poiché tutti  rispettano le regole allo stesso modo e frequentano le cerimonie cristiane dello studentato. E’ il caso di  Josè il quale, alla fine dei tre anni di permanenza nel gruppo, chiede il battesimo, assicurandomi che la famiglia è contenta della decisione. Mai aveva lasciato trapelare il dubbio che non fosse di famiglia cristiana.  Diversa storia ha Mario il quale passa da responsabile dei giovani cristiani alla pratica islamica a causa della seconda moglie musulmana. Considerata l’esperienza precedente, e per legarlo ancora di più al nuovo ambiente,  l’iman confida subito  a Mario   la direzione dei giovani musulmani.
Nella pratica della poligamia si annulla la religione e nel matrimonio si passa da una religione all’altra molto facilmente. Jacob è figlio di convertiti, è educato   nella  famiglia impegnata al completo nella comunità e nella parrocchia.            Trascorre il periodo degli studi nello studentato della missione. Con allegria e attenta preparazione contrae matrimonio cristiano con una giovane anch’essa cristiana. Dopo alcuni anni di serena di vita matrimoniale diventa poligamo. Prendendo come seconda moglie una musulmana,  Jacob  abbandona la chiesa cattolica e passa alla moschea. La prima moglie accetta la situazione ma continua a praticare la sua fede cristiana. Virgilio è un giovane cristiano, si sposa con una musulmana convertita. Per la sua conversione  é felice la famiglia musulmana. Alla cerimonia religiosa è presente tutta la tribù, alcuni ai margini dell’assemblea altri partecipando attivamente.




venerdì 8 dicembre 2017

Preghiera dei genitori

O Padre amoroso
i nostri figli non sono i nostri figli,
sono figli e figlie della vita.
Nascono per mezzo di noi ma non da noi. simili a noi,
Sono i tuoi.

Dimorano con noi e tuttavia non ci appartengono.
Possiamo dare loro il nostro amore ma non le nostre idee,
perchè essi hanno le loro.

Possiamo dare una casa al loro corpo
ma non alla loro anima,
perchè la loro anima abita la casa dell'avvenire
che noi non possiamo visitare
nemmeno nei nostri sogni.
Possiamo sforzarci di tenere il  loro passo
ma non pretendiamo di renderli simili a noi,
perchè la vita non torna indietro
nè può fermarsi a ieri.

Noi siamo l'arco dal quale, come frecce vive,
i nostri figli saranno lanciati nell'avvenire:
Permetti, o Padre,
che l'inclinazione della nostra mano di arciere
sia diretta verso Te e loro arrivino a Te,
dimorino in Te. Amen



giovedì 30 novembre 2017

natale 2016 Santa Maria Coghinas

Il Natale in "Cuzina"

Buongiorno a tutti.
Oggi è il primo giorno di Dicembre il mese del Natale.
Propongo il messaggio natalizio vissuto dagli abitanti di Santa Maria Coghinas lo scorso anno.
Santa Maria Coghinas detto in gallurese "Cuzina" è un piccolo paese di 1400 anime.
Tra morbide colline nella "Bassa valle del fiume Coghinas, nord Sardegna, è sito tra Valledoria e Viddalba.
Auguri di pace e serenità




https://youtu.be/w8g0_lH68gs

Per la morte di un amico


La morte di una persona cara è sempre un trauma. In chi rimane su questa terra essa segna un altro stile di vita: Si lasciano delle abitudini per prenderne altri, si innestano ricordi benevoli e, alle volte, rimorsi dolorosi. Il vuoto lasciato da chi parte non si può colmare perché non si sente più la voce, mancano le lamentele o gli apprezzamenti per i servizi prestati.  Si prestano ad altri le attenzioni  che prima si prodigavano a chi non è più. Nessuno può sostituire la persona cara. Eppure quella persona è viva, la si sente accanto, si parla con lei, a lei si chiedono consigli, si sente la risposta, ancora si lavora insieme. Tutto avviene in modo differente, misterioso ma reale nel cuore e nell’anima.
Ora  accompagniamo il nostro fratello all’estrema dimora. Lui entra a far parte delle persone che godono la salvezza assicurata da Cristo morto e risorto.  
Confortato dal vangelo di oggi che ci assicura che le forze del male non prevarranno mi è caro pensare il fratello nella gloria di Dio, assicurata a tutti coloro che si affidano a Lui.
Non mi è difficile vedere la vita di zio Pietrino in quella di Giobbe.
 Questo era un personaggio biblico facoltoso, buono, attento alla famiglia e ai sudditi. Va in fallimento, perde tutto, anche la salute. Il suo corpo si copre di piaghe e tutti lo invitano a maledire il suo Dio che ha permesso una simile situazione.  Al contrario Giobbe  risponde: Oh, se le mie parole si scrivessero! Se s’ imprimessero sulla roccia con stilo di ferro e con piombo! Io so che il mio redentore è vivo e che ultimo si ergerà sulla polvere. Quando il mio corpo si sarà disfatto con questi miei occhi io, io stesso Lo vedrò. Giobbe va oltre il momento penoso che vive, considera le sue sofferenze non fine a se stesse ma in relazione della vita che troverà in Dio dopo l’esperienza dell’annullamento del corpo. Giobbe vive nel desiderio l’esperienza della morte e della resurrezione. Quanto detto da Giobbe si realizzerà in ciascuno di noi con la potenza del Cristo morto e risorto.
 Se non avessimo questa certezza a che servirebbe la lotta della vita del nostro fratello che accompagniamo all’estrema dimora? Quale ricompensa per una esistenza spesa per la famiglia, nel portare avanti una famiglia di nove figli dei quali otto vivi? Nell’educarli al lavoro, all’unità, al servizio e generosità fino ad assicurare una dimora a ciascuno? Quale ricompensa per il sudore versato nell’attività costante e lungimirante della sua vita? A che servirebbe ora l’amore, la fedeltà, la dedizione alla moglie per i lunghi e duri anni trascorsi insieme?   Dove è finita l’amicizia con  i colleghi di lavoro? Quale  frutto ha potuto cogliere dalle gioie e dalle fatiche di una vita se gli ultimi anni li ha trascorsi nell’incoscienza e alla mercé di tutti? Certo, riceveva amore, attenzione, servizio costante ma lui non ne era consapevole.
Per chi guarda solo alla terra e non solleva lo sguardo al cielo, oltre il travaglio delle sofferenze tutto si risolve in un autentico fallimento. Per i cristiani, al contrario, è il prezzo di una eternità beata. Per noi grida ancora Giobbe che ricorda: Il mio Redentore è vivo e  ultimo si ergerà sulla polvere (la polvere dei nostri corpi e delle realtà  terrene). Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne  vedrò Dio, io stesso, i miei occhi lo contempleranno così come è. Qui sulla terra paghiamo un prezzo altissimo perché la ricompensa che ci aspetta è infinita, eterna.



giovedì 16 novembre 2017

Poesia...Un mattino


...un mattino,
quando la natura
dorme ancora,
me ne andrò...
...in silenzio...

Il mio cuore
avrà la stessa emozione
di quando arrivò
in questa Terra,
ove uccellini
attendono
la Primavera.

...Un mattino me ne andrò
in silenzio...
portandomi un carico
d'amore

Pier Carlo Acciaro
Memba 10 nov. 1999


L'elezione dell'anziano di Napako

Elezione dell’anziano  di Napako      
Napako è una piccola comunità cristiana sulla strada Kavà – Alua. L’anziano della comunità è un vecchietto del tempo coloniale che governa con  il terrore dei feticci (malocchio). Tutti hanno paura di lui. Ciò che lui  decide è legge e non accetta alcuna interpretazione a ciò che dice. I paurosi gli ubbidiscono, alcuni si allontanano, i musulmani e gli animisti non si avvicinano alla cappella per timore. Tutti sono stanchi della sua presenza. Vorrebbero cambiare ma come dirlo al Padre poiché l’anziano gli sta sempre al calcagno?   Ci sarebbe uno col quale sostituirlo ma questi non accetta, sempre per paura. Ci sarebbe un’ alternativa: affidare a Càssimo,  animatore di zona, anche l’incarico di anziano. La comunità non lo ritiene opportuno perché si accumulerebbe troppo potere nelle mani di uno solo. Accanto a lui c’è anche la moglie  chiacchierona e autoritaria. Arriva il momento propizio e il missionario convince il vecchio responsabile a lasciare l’incarico.  Prima di licenziarsi l’anziano indica  il suo successore nella persona di Swardi Mulakya e lo presenta all’assemblea come già eletto.  I fedeli, pur con la paura di una reazione pericolosa dell’anziano rinunciatario, non si sentono vincolati  e scelgono un altro con voto segreto alla presenza del missionario. Viene eletto Ramiro Loja, il catechista della terza tappa, è il catechista che prepara all’ammissione ai sacramenti. L’assemblea si mostra finalmente libera, confidando nella forza e nella libertà del missionario.
L’eletto inizia a tremare, è smarrito, vorrebbe rifiutare, diviene immobile, il suo sguardo passa dall’altare al missionario e poi fissa un punto sul pavimento. Confesserà più tardi che in quel momento desiderava sprofondarsi nella terra e non vedere più nessuno.  La cerimonia di insediamento  prevede  che l’anziano    uscente e il nuovo eletto siano seduti uno alla destra e l’altro alla sinistra del  celebrante. E’ impressione di tutti che l’eletto sia afferrato dal tormento dell’ufficio da svolgere all’altare e dalla paura di dover morire a causa del suo predecessore. La forza del padre che l’avrebbe protetto  non lo rasserenava. Il missionario chiede il consenso a Ramiro   per procedere all’investitura e lui non risponde. Il volto dell’eletto diventa lucido per la paura, il suo sguardo assente è rivolto alla terra, ora fisso su un punto ora rivolto verso la porta. Sembra sentirsi male. L’animatore di zona lo incoraggia e ricorda che anche lui era stato minacciato di morte quando  l’avevano eletto alla carica zonale, ma sono passati più di venti anni e ancora è vivo. Poi dice: “Non preoccuparti, la comunità è con te, non avere paura di nessuno”. Il missionario sospende l’incontro e incarica  Càssimo di sostituire l’ eletto per un mese.    
Alla scadenza del mese il missionario è nuovamente  nella comunità per la presa di possesso del nuovo anziano. E’ presente tutta la comunità eccetto l’anziano decaduto. Questo, insieme alla sua famiglia e alla famiglia di Swardi Mulakya, cambia zona e non fa più ritorno in paese. In seguito si  saprà che, appena superato il confine della missione, senza avvisare alcuna autorità, ha fondato un’altra comunità con i parenti e gli amici. Questo è un atteggiamento tipico di chi perde il potere nel proprio ambiente e non spera di ricuperarlo. Tutto volge al meglio, eccetto per Ramiro che è sempre incerto e pauroso, anzi più incerto e pauroso di prima. Occorre un colloquio a tre: il missionario, il responsabile di zona e l’eletto. Il nuovo eletto presenta le sue difficoltà  che vengono subito risolte dall’autorità dell’animatore di zona. Approfittando dell’assenza momentanea dell’animatore di zona, Ramiro mi confida che l’ostacolo maggiore è proprio  lui, Càssimo,  poiché ora si sente defraudato del posto di anziano. Capisco che occorre un mio discorso rassicurante Ramiro e che metta paura nell’animatore.
Alla presenza dei due e dell’animatore parrocchiale inizio il  “trattamento” contro il malocchio. Naturalmente è una cerimonia inventata sul momento perché l’unico rimedio a questa malattia mortale è l’autoconvinzione che non esiste il malocchio. Controllando le reazioni dei tre, li faccio sedere  davanti a me e prendo nelle mie mani la mano destra dell’anziano, la stringo forte in modo che lui senta bene la presa. Raccomando ai tre di pensare solo a ciò che accade tra noi, allontanando ogni altra preoccupazione o desiderio. Guardo fisso gli occhi di Ramiro e invito i tre a guardare solo i miei occhi e a pensare solo a me. Ecco il discorso che si rivela  persuasivo ed efficace, almeno per un lungo periodo:
 “Conoscete l’importanza del momento.  Siamo qui per allontanare da noi e dalla comunità cristiana ogni tipo di maleficio. Sapete  che al bianco e al missionario non attaccano i feticci né alcun’’altra forma di maledizione. Come vedete ora sta davanti a voi un bianco che è missionario e porta in sé ogni forma di difesa per lui e per coloro i quali lavorano con lui. Voi avete lavorato da sempre con il missionario, avete piena fiducia nel Signore Gesù, che ha vinto la morte e il male. Niente è impossibile a chi vince la morte. L’unico rimedio per  superare il male è la preghiera  fiduciosa in Gesù e nella Madonna. Se noi abbiamo paura, questa ci toglierà le forze, ci obbligherà a pensare solo alla  situazione personale e ci distruggerà. Chi pensa di essere preso dal feticcio si ammala pensando ad esso, non mangia più, non vuole guarire, muore di disperazione e di stenti. Al contrario chi non crede in esso non è soggetto alla paura e vive bene, lascia  che gli altri si divertano con i propri malefici e mette la sua vita nelle mani di chi ha vinto la morte. Ora guardate bene, Ramiro ha la sua mano nelle mie mani, esiste una continuità fra la sua persona e la mia persona, io prendo sulla mia persona tutti i malefici che scendono su Ramiro, niente potrà fare del male a lui o alla sua famiglia. I malefici afferrano prima la testa poi il resto del corpo.   Ramiro, ascolta bene quanto sto per dire: “ Se qualcuno vorrà farti del male tu rispondi che è libero di fare ciò che vuole, il suo operato non si ferma sulla tua persona ma passa alla persona del Padre,  L’operatore di malefici risponderà  a me e non a te. Quel tizio avrà ciò che merita”.

Dopo  la catechesi l’eletto si rasserena e possiamo procedere  alla presa di possesso con grande allegria dell’assemblea.  Questa non sembra per niente infastidita per l’attesa prolungata dovuta al colloquio, anzi mostra soddisfazione per la conclusione raggiunta.  Il missionario inizia la celebrazione eucaristica,  accompagnato dall’animatore di zona, dall’animatore parrocchiale e dal nuovo eletto.  Il nuovo anziano rivestito delle vesti proprie, si mostra padrone della  cerimonia. Ora anche Napako può andare avanti spedita con  il responsabile  di sua fiducia senza alcun intralcio per la presenza di Swardi Mulakya e il suo amico.


giovedì 9 novembre 2017

Anche le scimmie piangono...

Anche le scimmie piangono
Nei racconti di un vecchio missionario ce ne sono   alcuni particolarmente significativi che meritano di essere ricordati. Padre Pio Santo Canova ricorda così gli inizi del suo ministero nella zona di Lurio.
“Nella zona di Lurio  vengo col gruppo missionario per  conoscere le terre al fine di  fondare una missione.  Al mio arrivo tutta la  vastissima zona é un’unica foresta interrotta da ampie savane abitate da molte specie di animali.  Vivono indisturbati, i palapala, le gazzelle e molti tipi di maiali selvatici. Non mancano  i  leoni,  gli elefanti, le scimmie, i leopardi. Sono tutti animali che scendono nei piccoli  villaggi alla ricerca di cibo. Quando gli animali non hanno fame o non sono disturbati la gente convive con essi quasi serenamente. Noi missionari  siamo anche provetti cacciatori perciò   la carne non manca mai nella mensa della missione. Gli animali preferiti sono le gazzelle, i palapala e, in mancanza di questi si cacciano anche le scimmie, più numerose e più facili da rintracciare.  
Appena arrivati sul posto prescelto per impiantare la missione si costruisce una cappella, un centro sanitario, un centro di alfabetizzazione per ragazzi e ragazze,  le abitazioni del personale missionario e degli operatori. Per realizzare tutto questo occorre molto tempo. Non ovunque arriva il fuoristrada per cui il materiale si deve trasportare spesso a piedi e sulla testa per molti chilometri. In compenso    abbiamo a disposizione tutto il tempo necessario. Sembra che gli anni e i secoli ci appartengano.
Fiumane di persone si accalcano nel centro sanitario con ogni forma di malattie. Spesso sono persone con lo stomaco vuoto da molto tempo. Il centro di alfabetizzazione ospita in modo permanente  cinquanta ragazzi e  alcune ragazze, altri arrivano a piedi dai centri più vicini.  Dobbiamo sudare  parecchio per aprire la scuola poiché il saper leggere e scrivere non  offre  subito da mangiare e i familiari devono lavorare inutilmente, aspettando i benefici  della istruzione. Una particolare avversione si riscontra per le ragazze, nate per dare un’ abbondante discendenza alla tribù. Per far questo non occorre saper leggere e scrivere, inoltre nel periodo dello studio si perde tempo e si acquistano brutte abitudini. In realtà l’istruzione delle ragazze rallenta lo sviluppo della tribù. Nella situazione descritta il mio compito é quello di evangelizzare mente e anima, oltre ad assicurare il cibo quotidiano”. Mentre racconta, padre Canova sembra rivivere quei momenti., orgoglioso delle sue imprese.  “Una volta mi sono dovuto assentare per una settimana”, continua il missionario, “ nel frattempo la dispensa si é svuotata.     Non c’è  tempo per andare a caccia di gazzelle o di palapala per assicurare il pranzo. La preoccupazione delle suore addette alla cucina diventa la mia preoccupazione: cosa dare   per sfamare  una marea di gente? Io non ho ancora imparato a moltiplicare né pane e neppure i pesci. Prego ugualmente il Signore dei miracoli e come i discepoli presento la mia disponibilità.  Si deve trovare qualcosa d’ immediato.  Ricordo che non lontano da casa si rifugia sugli alberi una famiglia di scimmie. Senza perdere tempo, prendo il fucile e mi dirigo verso l’albero, prima che gli animali  vadano altrove. Accoccolata sui rami  c’é ancora ben visibile tutto il branco. Sparo alcuni colpi. Due scimmie cadono per terra, alcune fuggono. La madre, un grosso esemplare da far paura, scende dalla chioma dell’albero, si mette accanto ad una delle sue creature senza vita e osserva la sua prole. Istintivamente  mi viene da sparare anche a  essa ma subito mi trattengo.  La preda caduta è sufficiente per quel giorno e sto a osservare cosa avrebbe fatto la madre.  Con il fucile in mano pronto allo sparo, immobile assisto ad una scena unica, mai vista prima né dopo. Quella grossa mamma prende fra le braccia una delle due scimmie morte e solennemente la solleva in alto. I suoi occhi lasciano scorrere abbondanti lacrime.  Con passo lento si  dirige verso la mia postazione e, senza troppo avvicinarsi, la depose ai miei piedi.

Non é fuggita, non ha potuto difendere la prole e ora consegna all’uomo crudele il suo  terribile dolore. Presenta la sua sconfitta al vincitore, sconfitto anche lui dall’istinto materno di una scimmia. Poi quella mamma si allontana velocemente  in direzione delle altre scimmie sopravvissute. Io mi ritrovo solo con il mio fucile in mano.  Osservo la preda.  Sono indeciso se portarla a casa o darle degna sepoltura. Pur nello smarrimento raccolgo gli animali e li consegno ai ragazzi.  Per tutto quel giorno non riesco a mangiare, non parlo con nessuno per non infastidire qualcuno. I ragazzi, ignari di tutto, mangiano in abbondanza. Quella scena materna è scolpita nella mia mente. Sembra che le lacrime della madre scimmia   bagnino il mio volto e, senza niente asciugare, passo le  mie mani sulle guancie e negli occhi. Il dolore della madre é diventato il mio dolore. Mai più avrò il coraggio di cacciare una scimmia.